Adriano Angelini e la sua Roma

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Incontriamo Adriano Angelini, scrittore e traduttore, romano e romanista, classe 1968. Come narratore ha esordito, nel 2005, con “Da soli in mezzo al campo”, un romanzo di formazione e una storia di calcio piena di omaggi alla Roma e a Totti; in questi giorni, si sta dedicando al lancio del suo nuovo romanzo, “L’ultimo singolo di Lucio Battisti” (Gaffi Editore), storia di tre famiglie romane del secolo scorso. Ma a noi del “Caffè Sport” interessa parlare, con gli artisti, di calcio e di fede: e di stadio.

Quando sei entrato, per la prima volta, allo Stadio Olimpico? Che partita era? Ti ricordi qualcosa o eri troppo piccolo?

Non ricordo nello specifico la prima volta ma ricordo perfettamente la stagione. Campionato 1982/83. Anno del secondo scudetto. Eravamo in Tribuna Tevere centrale con mio padre e un suo amico. Tante gare magistrali con il tatticismo brasileiro-svedese del Barone Liedholm. Ricordo bene Roma-Pisa 3-1, Ancelotti aveva il dieci (poi si fece male), andò in vantaggio il Pisa, primo tempo disastroso. Poi ribaltammo con Pruzzo e Maldera con una bomba da fuori. Calore, atmosfera sublime. Irripetibile.

C’è qualcosa che hai conservato, negli anni, come ricordo dello stadio? Che so: vecchie riviste, pezzi di coreografie, cuscini, cappelletti?

Non sono un maniaco degli oggetti, perdo tutto. Comunque in cantina ultimamente ho rivisto una bandiera dello scudetto del 1982 con sciarpetta di un tessuto simil lucido che non saprei definire. Ricordo il caffè Borghetti consumato sugli spalti (non da me, ero troppo piccolo).

Come hai vissuto le trasformazioni dell’Olimpico, tra fine anni Ottanta e primi anni Novanta? Hanno costituito una cesura, in qualche modo, oppure no? Cosa è cambiato?

All’inizio il nuovo Olimpico non mi è piaciuto (ne accenno anche nel mio nuovo romanzo). Poi piano piano ci ho fatto l’abitudine, come tutti. Secondo me però a vederlo oggi con sguardo più distaccato non mi sembra una grande opera. L’Olimpico originario aveva un suo perché, un suo stile all’interno di una cittadella, quella dello Stadio dei Marmi, con una coerenza architettonica (e scultorea). Che dire, servirebbe un nuovo stadio. Ma chi lo fa? James Pallotta e la sua squadra di ‘esperti’ che ‘dialogano’ con la junta a cinque stelle? I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Però ti dico una cosa, nonostante i cambiamenti imposti dall’alto, i tifosi romanisti continuano a mantenere una coerenza di fondo (soprattutto i tanto vituperati gruppi Ultras) e una pervicacia inappuntabile. Se lo stadio ha ancora una forza e un’energia si deve a loro. Passione, coreografie, atmosfera. Danno speranza. E lo dico io che non sono mai stato un curvarolo…

Qual è stato il tuo primo idolo, tra i calciatori della Roma? Chi sono i due o tre calciatori con cui ti sei maggiormente identificato, e perché?

Falcao, Giannini e poi Totti. Perché giocavo col numero dieci anch’io e avevo il mito del dieci. Negli anni di Falcao però il mio idolo era anche Michel Platini ovviamente, e poi c’era Zico. Dopo c’è stato Diego, e poi ci sono stati grandi numeri dieci stranieri. Oltre a Baggio. Falcao per l’eleganza e la capacità di rendere facilissime cose impossibili. Giannini perché era un geometra del centrocampo (secondo me sottovalutato; giocò i mondiali di Italia ’90 in modo perfetto, ma perdemmo malamente in semifinale di fronte a re Diego). E poi, vabbè, Francesco perché non è stato umano. E ha fatto i numeri e le meraviglie che conosciamo e che personalmente non mi stancherò mai di rivedere. A una di queste perle, il gol con la Sampdoria all’Olimpico in stile Messi, ho dedicato la prima pagina del mio romanzo d’esordio “Da soli in mezzo al campo”.

Cosa significa, per te, essere tifoso della Roma? Cosa vuol dire “appartenenza”?’

Allora, ti confesso una cosa. Da ragazzino, per andare contro (ero uno che andava sempre contro, un po’ come oggi del resto), ero juventino, poi per un periodo il calcio mi ha fatto schifo. Quando ho cominciato a giocare seriamente (posso vantare provini con Roma e Lodigiani, ma sono stato scartato perché non avevo carattere, ero un bel figurino tecnico in mezzo al campo ma poco mordente), mi sono messo a tifare per l’unica squadra per cui si può tifare a Roma, mi è venuto spontaneo; e non solo perché è la squadra della mia famiglia ma perché ti fa appartenere naturalmente a una città (che poi diventa una gabbia – e credo che Totti e De Rossi lo sappiano). Appartieni a una città come a una strega che ti ha lanciato un incantesimo e davanti a te credi di vedere una bella donna (o un bell’uomo, dipende dai gusti e dai sessi). Roma e la Roma sono una sublime fascinazione, una maledizione dolcissima. Soffri e gioisci come se non ci fosse un domani (che infatti non c’è). Soltanto così intendo tifo e appartenenza. E questo vale anche per le incazzature; riesco a passare periodi di schifo in cui non guardo una partita e di attaccamento tale che non mi perdo nemmeno Roma-Pinzolo. Del resto, l’amore funziona in questo modo.

L’autogol di Paolo Negro ha cambiato qualcosa, nella tua vita?

Secondo me ha cambiato più la loro, di vita… non sono stati più gli stessi, poveri cuginetti (a cui però voglio molto bene, ho amici fraterni della Lazio) :).

Come stai vivendo quest’epoca di piazzamenti, di sconfitte e di “trofei delle plusvalenze”?

Con orrore. Cioè, all’inizio tanto entusiasmo. Arrivano gli americani, cioccolate, caramelle, sigarette, grandi elargizioni da parte dei liberatori ai tifosi eterni sconfitti, nuovo piano Marshall per la capitale dell’ex Impero. Wow! Io poi che sono filo-yankee non aspettavo altro. Luis Enrique, per me guardiolista adoratore del tiki-taka, ha rappresentato una tappa mitica. Purtroppo Roma è la dimostrazione che anche le migliori intenzioni spesso e volentieri si trasformano prima in tragedia e poi in farsa. Credo che con Luis Enrique avremmo dovuto aspettare, comprargli giocatori decenti e avere fiducia. Il punto è che gli yankee che ci hanno appioppato non sono gli amerikani col K. Quelli coi soldi e il potere vero. E il ruolo di Unicredit in tutta la vicenda Roma continua a rappresentare un peso troppo grande. E poi, diciamocelo chiaro e tondo, quei pochi giocatori bravi che hanno scelto (forse più per culo che per bravura, e penso a Lamela, Marquinhos, Benatia, Salah e Pjanić) sono serviti per la libera circolazione dei denari e per rimpinguare le casse; altro che obiettivo scudetto e Champions! Ma com’è che Tare ogni anno azzecca gli acquisti e la Lazio in questi nostri sette anni di gestione yankee ha vinto qualcosa e noi no? L’orrore, direbbe Kurtz di “Apocalypse Now”. L’orrore.

Sei mai riuscito a finire un album Panini? Quanto ti mancava, al massimo?

Ti giuro non me lo ricordo, ma credo di esserci andato vicino almeno un paio di volte, tipo mi mancavano un paio di figurine. Ah… quanta nostalgia. Pensa che quando passavo davanti al negozio della Panini (un rivenditore che avevo vicino casa) se mia nonna non si fermava a farmele comprare attaccavo un pianto e un capriccio fastidiosissimi.

Cosa ricordi del secondo scudetto della Lazio?

Davvero hanno vinto il secondo scudetto?

Leggi ancora i quotidiani sportivi – almeno on line – oppure preferisci aggiornarti e informarti altrove, in Rete? Se è così: qual è l’informazione romanista più attendibile?

No, non ci riesco più. Tra l’altro vedere che come editorialista di punta il “Corriere dello Sport” ha Walter Veltroni mi dà un brivido giallo, una sensazione straniante. L’informazione romanista on line è una sorta di caccia al tesoro, so di poveri praticanti costretti a rimestare una notizia come un caglio già stopposo. Leggiucchio la “Gazzetta” ogni tanto, solo on line. Non c’è un sito di riferimento. Vado a caso. Poi c’è il capitolo radio romane. Permettimi di dire una cosa. Negli ultimi tempi ero/sono arrivato a detestarle profondamente, tutte, senza distinzione. Una ridicola guerra fra poveretti che non ha senso. E però, dopo l’uscita di mister Pallotta, l’altro giorno, con cui ha detto, con grande sprezzo dittatoriale, di esser riuscito a farne fallire 2 su 9 e che gliene mancano 7, mi sento di dimostrare alle radioline romane tutta la mia solidarietà. Pensare che molte di queste gli hanno leccato le terga, al signor Nessuno Yankee, per lunghi mesi, se non anni, per ritrovarsi oggetto di tale sprezzo… non ha prezzo. Resistete, radioline, sono con voi!

Ma ti ricordi quanto era bello, l’estate al mare, sfogliare il “Corriere dello Sport” con la pizza calda, la mattina presto? Tutto profumava di buono…

Sì e non c’era Veltroni che, fra un’intervista a Pierino Prati e una a Chiesa o Zanetti, ti rammenta (lo fa magicamente, fra le righe, senza doverlo scrivere, con la sua bontà e abilità harrypotteriana) che lui è uno scrittore e che ha pubblicato pure romanzi e gliel’hanno persino trasformati in film…

Gianfranco Franchi, marzo 2018.

Prima pubblicazione: Mangialibri, “Caffè Sport”.

Per approfondire: ANGELINI SUT in Porto Franco

trofeo di calcio a vienna