2021: libri dell’anno. Fuori classifica o fuori tempo massimo

Quanta fatica per ricostruire i libri determinanti nel mio 2021 – e non soltanto perché non ho scritto niente su nessuno di loro, tolti appunti e private pezze d’appoggio, magari sui frontespizi. Non ne ho scritto per una ragione o per un’altra, per lo più perché non c’era un committente diverso dalla mia volontà e perché mi sembrava non avesse troppo senso. Adesso mi accorgo che mi dispiace. Forse, almeno per questi titoli, avrei dovuto (e pazienza se e se e se: pazienza: silenzio).

È stato un anno ondivago, irrequieto, surreale (oh, finalmente quest’aggettivo è speso con parsimonia ed esattezza) e sì, è stato un anno condizionato, sostanzialmente in tutto, dalla pandemia: nella (ovviamente frantumata ma non smarrita) socialità, nella dedizione (a tutto), nella concentrazione (irregolare, episodica: comunque intervallata). È andata e siamo qui, e questo basti, per adesso. Teniamo la posizione, manteniamo la linea.

Ho letto parecchi fumetti, in compenso, e qualche libro illustrato. Questo perché, proprio come negli ultimi tre-quattro anni, mi sono accorto che dei fumetti avevo una grande nostalgia, una nostalgia adolescente e ragazzina, e forse perché dei fumetti ho bisogno per ricostruire il mio immaginario, andato più o meno in pezzi da qualche anno a questa parte. Tanti piccoli pezzi e nessuna voglia di ricomporli come in un mosaico (sono uomo da labirinto non sono un uomo da rompicapo). Dei fumetti parlerò più in là perché sto raccogliendo idee, dopo aver recuperato qualche anno di arretrati, silenziosamente e forse furiosamente.

Adesso tre quattro righe per libro, solo per dare qualche coordinata essenziale e per dire perché si trovano qui, nel mio microcosmo spaesato.

Il libro che ha saputo stupirmi (davvero, profondamente) è un “silent book”, un libro illustrato. Opera prima di Peter Van den Ende, da Anversa, classe 1985, “The Wanderer” è stato pubblicato in IT col titolo “Il viaggio” dalla Terre di Mezzo. È la storia di una barchetta di carta in un mondo improbabile che pare ibridare Moebius, Hieronymus Bosch e certi momenti sofferti e angoscianti di Bruegel il Vecchio (quanti personaggi! E quanta voglia di tornarci su, a distanza di qualche giorno, per capire cosa ti sei perso di quello o di quell’altro). La quarta di copertina ha uno sbuffo di Shaun Tan e non è un errore.

Andiamo avanti. Quest’anno ho potuto apprezzare l’attesa nuova edizione del basilare memoir del capodistriano Pier Antonio Quarantotti Gambini, “Primavera a Trieste”: una Mondadori, 2018 apparsa a circa mezzo secolo di distanza dall’ultima edizione italiana. Simile siderale distanza, sconveniente e stupida, è tuttavia la leale rappresentazione della freddezza e dell’insensibilità della massima parte della cultura del Belpaese nei confronti del dramma degli istriani, dei fiumani e dei dalmati, nei riguardi di quella che mio bisnonno paterno Mario Giani chiamava, correttamente e frontalmente, “Tragedia della Venezia Giulia”. “Primavera a Trieste” è un libro che dovrebbe essere adottato da tutte le scuole superiori per raccontare i 40 giorni della vigliacca e assassina occupazione jugoslava di Trieste. È il massimo risultato di Quarantotti Gambini: il libro della sua eternità.

Quest’anno ho accettato, poi, di sciogliere le ultime riserve e leggere un saggio che mi aveva stuzzicato e respinto quando era stato pubblicato, nel 2018: “1918. L’anno della Spagnola” di Laura Spinney, titolo originale “Pale Rider. The Spanish Flu of 1918”. Per tempo avevo letto un articolo del “Corriere” che mi aveva spiegato tutte le ragioni per leggerlo: un anno e qualcosa più tardi, tutti abbiamo capito perché aveva senso (e coi sei milioni di morti a fine 2021 non dubitiamo di essere stati, sin qua, più fortunati di cento anni fa). Lettura forse diventata incresciosamente didascalica e tuttavia utile e anzi edificante. Adesso il saggio circola in una economica Feltrinelli, la prima edizione era una Marsilio.

Altra lettura rinviata da anni è stata quella di una miscellanea curata dallo storico Tommaso Piffer. Si chiama “Porzûs. Violenza e resistenza sul confine orientale”, è una Mulino, 2012 e include interventi di storici apprezzati come R. Pupo ed E. Aga Rossi. A distanza di oltre 70 anni dai fatti (“soli 76 anni” a fine 2021), si può adesso leggere la verità sui fatti della malga, restituiti in buona lingua italiana, senza condizionamenti o eccessive paranoie di rappresaglia e – soprattutto – completi di documentazione di tutto rispetto. Escludo che successivamente si possa considerare quanto accaduto al confine orientale con lo sguardo di prima: il tradimento di certe frange del partito comunista è ormai pacifico, acquisito e inequivocabile. La successiva copertura o peggio la successiva mistificazione, avvenuta per ragioni esclusivamente ideologiche, è inaccettabile. La sua durata… “rivelatrice”.

C’è stato un libro “dell’anno” e non “nell’anno”? Naturalmente. Si tratta di “Bobi” di Roberto Calasso, pubblicato da Adelphi. Altro che la biografia pettegola della Battocletti: questo libro, a un tempo congedo dalla vita e congedo da un maestro, è un distillato dell’intelligenza di una figura a dir poco singolare delle patrie lettere e della Mitteleuropa, in genere, e un’elegia destinata a fare la gioia degli adelphiani di tutte le generazioni. Adesso tutti possono sapere chi era, davvero, Bazlen: e possono saperlo con le parole dovute. C’è poi sullo sfondo il disagio della triestinità e di Trieste nel Novecento, e l’angoscia di un figlio di una matta: tutto restituito con pietà e delicatezza. Addio, Calasso.

Con la solita differita di 55 anni, è apparso in prima edizione italiana uno degli appassionanti libri di Patrick Leigh Fermor, “Rumelia. Viaggi nella Grecia del Nord” [Adelphi, 2021]. Non potrà ripetere i fasti del basilare “Mani”, non ne ha il respiro né la consistenza, tuttavia rimane una lettura complementare ed emozionante, gioia per tutti i filelleni e per gli appassionati di cultura romana d’Oriente, in genere. Il mio scaffale greco esulta.

Stavolta in ritardo sono stato io: Dino Messina del “Corriere” aveva pubblicato, due anni fa, il buon saggio “Italiani due volte” per la Solferino: un’inchiesta sull’esodo dei circa trecentomila nostri compatrioti istriani, fiumani e dalmati, completa di buona aneddotica e di apprezzabile bibliografia. Perché sono andato tanto in ritardo sul libro di Messina? Perché avevo aspettative forse troppo basse, come tutte le volte che a trattare di vicende della mia gente (vale a dire del “tre quarti del mio sangue”) è qualcuno che viene da lontano, che sia un piemontese o un siciliano o un sardo o un toscano poco cambia. Riconosco, invece, a Messina di aver trattato con umanità, rispetto e misura una vicenda complessissima; gli riconosco di averla restituita con equilibrio e personalità. Degno di riedizione a distanza di tre-cinque anni.

Infine, un libro magico. Adelphi ci ha regalato (si fa per dire, visto il prezzo) un libro iniziatico antico romano: “I sette talismani dell’Impero” di Mino Gabriele, storia di reliquie, feticci e segreti che tenevano in vita la segreta essenza di una civiltà irripetibile. Non si parla solo del famigerato Palladio; e di tutto quel che si parla, si parla cum grano salis. Il saggio, magnificamente illustrato, è corredato da un apparato di note di tutto rispetto.

LAST BUT NOT LEAST. Non riesco più a leggere narrativa ormai da diversi anni, come chi mi segue sa. Quest’anno ho comunque festeggiato, più o meno segretamente e silenziosamente, la pubblicazione del nuovo libro di Matteo Trevisani, un artista che seguo sin dal suo esordio, con sincero apprezzamento; Atlantide ha dato alle stampe il suo “Libro del sangue”. Sono stato poi molto contento per la pubblicazione del nuovo romanzo di Paolo Mascheri, farmacista e scrittore aretino classe 1978. Si chiama “L’albero delle farfalle”, è una peQuod.

 

Dei fumetti dirò altrove. Devo pensarci parecchio. Niente trailer!

Buon anno, valete

franco, val tanaro, dicembre 2021